Dieci anni dopo, mi ritrovo a camminare per le arterie di Milano Est. Una sensazione non più familiare, vissuta da turista curioso. Sono arrivato cinque giorni fa, e questo è il primo momento in cui esco di casa. Ho sentito tanto parlare di una Milano ritrovata, rinnovata, cambiata dentro e fuori. Voglio vederla. Suppongo che il cambiamento metropolitano sia qualcosa che parta da un qualche punto centrale, per poi espandersi verso l’esterno. Non penso che questo big bang abbia toccato i confini della mia vecchia zona orientale. Se l’ha fatto, oggi non lo percepisco.
Poco male, anzi. Non cercavo niente di particolare, a parte la voglia di registrare la mia reazione. Una qualsiasi. Da ottobre 2015 non vivo in una città di grandi dimensioni, da quando ho mollato Londra per Cambridge. In termini di abitudine alle dinamiche apparentemente caotiche, e sicuramente rumorose, sono tornato in territorio sconosciuto. Scopro, con parziale stupore, di avere nel frattempo dimenticato il nome di diverse strade.
Primo impatto: c’è un forte sole, esco in tenuta estiva — bermuda a scacchi bianco e nero, t-shirt nera — e mi accorgo di essere praticamente l’unico. Seconda impressione: c’è tanta più gente che indossa la mascherina anche all’aperto di quanta me ne aspettassi. Nettamente più che a Ravenna, anche se non so se è una coincidenza, o se la coscienza della situazione qui sia più sentita.
Il resto è una carrellata progressiva di suoni spesso per me violenti, odori attutiti in parte dalla maschera, e una texture apparentemente sporca. Il primo livello di osservazione, per chi non ha mai abitato qui, è sicuramente macchiato da questa nota superficiale. Milano appare grigia, sporca, e puzza. Sicuro, con le carovane di auto, gli scooter che tagliano da più lati, biciclette più numerose di quanto ricordassi, centinaia di cicche di sigaretta accumulate come formiche in fila indiana ai lati delle strade, la prima botta è notevole. Tuttavia, uno sguardo attento registra anche una lunga carrellata di bellissimi murales dettagliati con gusto e competenza artistica. Opere a cielo aperto, spray su cemento armato, che partono dal cancello di uscita del condominio, continuano nel sottopassaggio ferroviario tra Pordenone e Casoretto, e sfumano via dall’altro lato.
Le auto non sfrecciano particolarmente, c’è un’attenzione discreta, e per due o tre volte si fermano per lasciarmi passare, anche quando non accenno all’intenzione di attraversare. Mi sorprendo e vado avanti. Fa un po’ impressione la pizzeria di Attilio che si è inghiottita l’intera filiale UniCredit, che era sempre stata in quell’angolo di strada da che ero arrivato qui venticinque anni fa. Mi arrivano ogni tanto bordate di odioso fumo di sigaretta, ma non riesco a vederne la sorgente. Immagino che, come spesso accade, la mascherina stia alterando un odore pungente, facendomelo percepire come qualcos’altro.
Dopo la chiesa giro a destra in via Andrea Maria Ampère, dove una macchina della polizia locale ha transennato tutto e un vigile sta piantonando la situazione. Per un attimo mi chiedo cosa possa essere successo, quando vedo i mezzi della pulizia stradale impegnati a sistemare il caos del mercato rionale appena chiuso. Uno guida lento mentre l’altro, usando una colossale pompa, getta fiotti di acqua e detergente sui marciapiedi. Intanto l’aspiratore risucchia frammenti di verdure, nastri di plastica, carta, sigarette.
Incontro almeno due disperati che stanno praticamente facendo la spesa per terra, sfruttando gli avanzi lasciati dalle bancarelle. Un terzo è invece impegnato a raccogliere e ripulire due appendiabiti neri. Li avvolge in ordinati sacchetti trasparenti, e li ripone in una borsa nera, sempre indossando la mascherina azzurra. All’incrocio tra Ampère e via Vallazze una ragazza vestita di nero, seduta sul muretto di una cancellata, si tiene la fronte con le mani. Sta piangendo, in silenzio, lasciando che le lacrime le scivolino sul marciapiedi. Sopprimo l’istinto naturale di offrire un qualche supporto, e anche se rallento e la osservo brevemente, poco dopo si asciuga il volto e se ne va.
Al punto del rendezvous con Giuseppe, che non vedo da quasi due anni, attraverso l’incrocio e attendo. Cambio lato, per evitare il pesante tanfo di pesce che arriva delle cassette di polistirolo accumulate in un angolo. Ascolto frammenti di discorsi della gente che cammina spedita. Mi sono abituato a questa vista italiana in cui quasi tutti parlano da soli, verso un telefono tenuto come fosse un dittafono vintage. Le conversazioni che una volta mi divertivo a carpire fugacemente durante le mie passeggiate milanesi, ora sono perlopiù monologhi registrati su WhatsApp. Giuseppe appare da destra. L’incontro è solare ma misurato: non ci abbracciamo e teniamo le maschere, ma siamo allegri. Lo trovo più rilassato di quanto mi aspettassi, e si ride anche quando gli faccio notare che entrambi abbiamo i capelli sale e pepe.
Saliamo sulla storica Volvo e andiamo dalle sue parti, piazzale Dateo, passando per Piola, Città Studi e l’edificio fascista dell’Aeronautica. Mi fa notare all’interno del cortile un display a matrice che indica il livello di allerta militare, in tempo reale. Una versione locale dell’americano DEFCON e del britannico BIKINI? Mi riprometto di indagare. Passiamo un paio d’ore tranquille, parlando seduti al tavolino esterno di un bar che conosce, e da dove osservo lunghe carrellate di personaggi di ogni genere. Indaffarati, in cerca del modo più rapido per arrivare da qualche parte, o del tutto rilassati, a portare in giro il cane o i bambini. Mi accorgo in quel momento come, da quando sono uscito di casa, non ho ancora sentito un clacson suonare.
Il barista arriva a prendere l’ordine, chiedendo in anticipo a Giuseppe se vuole il solito macchiato. Al mio turno domando se hanno brioches vegane. Il giovane sorride in un modo vagamente strafottente, che non sono sicuro di capire, poi spiega che a quell’ora le brioches sono finite da un pezzo. Giuseppe sceglie una specie di Madeleine ripiena alla crema, definita nel menu come pasticciotto, mentre io ripiego su un succo all’albicocca. Passiamo il nostro incontro aggiornandoci sui recenti spostamenti e vari eventi, e così scopro che il nostro comune ex collega e amico F. vive in un’altra regione, sopravvivendo grazie al reddito di cittadinanza. Mentre al tavolo dietro una mamma allatta il suo neonato, mi alzo per pagare. Il cameriere che ci aveva servito mi dà del lei, e non mi prende la carta: lascia che la appoggi da solo al POS. Addirittura lo scontrino esce dal mio lato, e lui si accomiata indicandolo:
— quello è suo, buona giornata! —
Esco dal locale chiedendomi se afferrare dalle mani la carta di pagamento, come se tu non fossi in grado di fare da solo, sia un problema dei commercianti di provincia. Queste folate di attitudini nord-europee mi rilassano. Al ritorno mi faccio riaccompagnare nello stesso punto, in modo che possa tornare a piedi e vagare un po’ per le vie che ho frequentato a lungo in passato. Ci salutiamo con affetto, ripromettendoci una prossima uscita dove ripercorreremo i luoghi che hanno accompagnato l’inizio della nostra amicizia. Corso Sempione, in particolare, via Fauchet e dintorni. L’idea è quella di esorcizzare il ricordo, e chiudere andando a mangiare in uno dei ristoranti oggi gestiti dal nostro ex capo.
Mi incammino per via Vallazze, arrivando all’incrocio dove con mia grande sorpresa vedo il Bar Hemingway del tutto inalterato. L’ho visto per la prima volta penso nella primavera del 1990, ed era già così. Lo zio ha lavorato a lungo dietro l’angolo, in via Guido Gozzano. Decido di andarci. La zona in generale ha un aspetto un po’ povero, come se fosse stata in qualche modo dimenticata. È più probabile che sia io ad averne alterato il ricordo, essendo disabituato a questi colori. La palazzina dove c’era il suo ufficio mi pare uguale, ma cercando visivamente il balcone corretto scopro che ha le tapparelle completamente serrate. Alla destra, una bici in terrazzo, di fianco a uno stendibiancheria carico di vestiti. Ho questa breve immagine, dove rivedo lo zio camminare su e giù con il cordless all’orecchio, intento a dibattere con qualche cliente. Per alcuni secondi chiudo gli occhi al sole del tramonto, e penso al fatto che sono trascorsi più di venticinque anni, forse trenta.
Rientro nella strada principale, oltrepasso il bar, l’Unes, e incrocio una ragazzina al telefono che piange. Dev’essere la giornata. Per i pochi secondi in cui siamo vicini la sento dire — no, la pulizia dei denti la rimando — mentre toglie una lacrima che le riga la guancia sinistra. Giro a sinistra e vado a vedere l’ingresso del Birrificio di Lambrate. Via Adelchi, priva di traffico, è una sorta di Smemoranda urbana. Migliaia di graffiti spray, adesivi e scritte a pennarello ornano ogni mattone di ogni singolo muro, inclusi i pali della luce. Al bancomat delle Poste, imbrattato a sua volta, una fila di giovani attende il turno. A un’occhiata fugace, il tutto sembra semplicemente lurido. Avvicinando le palpebre come a mettere a fuoco, vedo invece una forma di creatività non definita da regole. Come i diari che vedevo alle scuole medie o ai primi anni di liceo, via Adelchi è una colossale stratificazione di testimonianze, di migliaia di persone che sono semplicemente passate di lì, facendosi compagnia. Ricordo una sera di molti anni fa, quando notai il proprietario mettere su la musica nel locale dal suo iPod bianco, tenuto intelligentemente dentro un finto impianto stereo.
Fuoriesco in via Porpora, con il suo consueto frastuono di auto e motori. Decido in anticipo di allungare fino a via Monte Nevoso. Un omaggio silenzioso all’edificio da dove Fausto Tinelli avrà probabilmente visto andirivieni di brigatisti rossi, suoi dirimpettai al civico 8. Oltrepassati i due fitness centre, dalle cui finestre sento urlare numeri in sequenza, chiudo i miei tre chilometri di passeggiata nel minuscolo triangolo di erba alla fine della via. Su una delle due panchine, una coppia di giovani si bacia con passione, incuranti di chiunque li possa vedere. Di fronte a loro, di spalle, un uomo legge un libro. Rientrando dal sottopassaggio, sento fastidio agli occhi. Disabituato all’aria aperta? Smog? Mi ronzano anche le orecchie, e coprendo le ultime centinaia di metri mi chiedo quando è stata l’ultima volta in cui mi sono sentito davvero a casa. Da anni non è così, e il nomadismo degli ultimi dodici mesi ha reso la percezione del concetto una sorta di pensiero astratto.
Non ho avuto fastidio a camminare nella rumorosa, sporca e grigia Milano Est. Al contrario. Se, come si dice, ogni cosa ha una crepa da dove passa la luce, accolgo il bisogno di mescolarmi di nuovo al caos apparente, all’imperfezione. Piantarla con questa ricerca distopica di uno spazio asettico in cui niente si muove e nulla risuona.
Foto: Milano Today
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