Sono uno smalltown boy.
Ero titubante di fronte all’idea di tornare a Ravenna, anche se per un tempo limitato. Questo è il luogo dell’infanzia, dell’adolescenza, la scuola, il primo amore, la prima band musicale, il primo strumento da imparare a suonare, il primo maestro di basso, i primi concerti e le prime canzoni scritte.
Non è il luogo in cui sono diventato adulto.
Le prime relazioni importanti, la prima convivenza, il primo lavoro, la prima casa, eccetera. Tutte cose avvenute a Milano. La differenza è sostanziale, e, per il mio immaginario, seria. Senza rendermi conto, nelle ultime settimane ravennati sono caduto in uno stato mentale di estrema stanchezza, in cui le cose cessano di interessarmi, in cui mi focalizzo sempre di più su una singola attività, e in cui il corollario esterno diventa evanescente.
Sono anche contento di essere stato presente durante l’inverno, per la famiglia, alcuni buoni amici, e mi ha fatto piacere vivermi il luogo nell’ambito in cui lo apprezzo davvero: poca gente in giro, nebbia e freddo. Tuttavia, sono arrivato al mio limite naturale. Non ho memorie adulte qui, e viverci in questo momento storico ha comportato una sensazione di disforia.
Il tutto mi richiama un semplice fatto: da qui sono fuggito nel 1996. C’erano ragioni allora e ci sono oggi. Adesso che vedo una via di uscita dalla pandemia, pregusto un lento ritorno a una forma di normalità, in cui l’idea di trasferirsi in Germania, Olanda, Francia o Svezia torna a essere fattibile. La mia idea per i prossimi mesi è tornare a Milano.
Il luogo dove sono diventato adulto, dove ho avuto le mie relazioni da grande, il primo lavoro (e il secondo, il terzo…), dove ho cessato di vedere le cose con occhi di bambino. La fuga del ’96 non era una reazione cieca, ma una forma di richiamo istintivo verso un luogo dove potessi perdermi. Dove ci fossero più opportunità di quelle che avrei potuto affrontare.
Nonostante la mia predilezione per l’isolamento, ho finalmente accettato il fatto di quanto le megalopoli mi attraggano. Non mi importa e probabilmente non mi è mai importato della quantità di persone, del caos, del rumore. È sempre stato come la luce per la falena: c’è una canzone che amo, dalla colonna sonora di Mr Robot, che dice:
Alla falena non importa quando vede la fiamma
The Moth And The Flame
o che possa bruciarsi
L’importante è sentirsi parte del gioco
Per quanto l’allegoria riguardi la dipendenza verso qualcosa, io ci vedo Milano, Londra. La tendenza è sempre stata quella. Il luogo piccolo, la provincia, mi soffocano spingendo a chiudere ancora di più la mia chiusura naturale. A Milano mi sono messo in gioco, a Londra mi sono rimesso in gioco. È come avere bisogno di una sfida più grande, un luogo più vasto contro cui non posso vincere ma con cui il confronto è possibile. Probabilmente è dipendenza, come nella canzone.
All’epoca di lasciare Londra, abbiamo deciso di partire per Cambridge, convinti entrambi di volere una dimensione differente. E per un po’ abbiamo avuto ragione. Successivamente, è subentrata una progressiva e subdola sensazione. Entrambi smalltown people, abbiamo assorbito l’isolamento reale da provincia, dove tutto è ridotto, rallentato, ovattato.
Già l’avere riscoperto questa dimensione personale, averla confrontata e avere trovato un accordo per cui tra non molto saremo a Milano, mi ha rimesso in moto energia. Sono palesemente contento di tornarci, e non solo per questioni nostalgiche. La necessità di risentire quella spinta a potere fare molte più cose, a prescindere da quante effettivamente ne faccia, sta già pressando. Spero davvero di ri-trovare una città europea, non solo italiana.
Mi piacerebbe anche trovare un lavoro per circa un anno, e magari prenderci un appartamento in affitto nella nostra vecchia zona, vicino agli amici. E dopo esserci rimessi in gioco così radicalmente — tornare in Italia dopo nove anni in UK, misurandoci con reali quotidianeità italiane sono state cose forti per noi — ed essere rientrati in possesso di un punto di vista più equilibrato sulle nostre origini e sulle evoluzioni compiute, saremo pronti per spiccare di nuovo il salto.
Una nazione differente, una lingua nuova da imparare, una dinamica differente con colleghi che vengono da ogni parte del mondo. Conosco diverse persone che sono andate via e poi tornate alle origini. Non sento che faccia per me, ma almeno adesso non credo più che rimanere in Italia sia la fine.
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